Rai: dietro le quinte

Di Anita Corsi, Alexandra Delrio,  Lorenzo Moretti, Beatrice Pincelli, Giulia Portalupi, Federica Tanca, Emma Zini, 2B

La 2B si avventura nel backstage della Rai

Avere l’opportunità di visitare la sede regionale della Rai a Genova è stato davvero emozionante perché ci ha consentito di vedere per la prima volta quello che in futuro potrebbe diventare il nostro lavoro, veder applicare nella realtà tutto ciò che studiamo o vediamo in televisione tutti i giorni, attraverso una visita esclusiva ed unica per scoprire i segreti del mondo dei media.

Guarda il video con la nostra esperienza 

Durante il tour abbiamo avuto accesso alle tecnologie all’avanguardia e ai processi creativi che alimentano la produzione di contenuti televisivi e radiofonici. Dallo studio alla regia, ogni angolo della sede ha svelato un aspetto affascinante del lavoro che permette la realizzazione di programmi che raggiungono ogni giorno milioni di italiani. Un’esperienza che ha stimolato riflessioni sul ruolo dei media nella società contemporanea e sull’evoluzione del giornalismo e della comunicazione.

I giornalisti e i tecnici coinvolti nel progetto “Rai porte aperte” hanno iniziato la visita illustrandoci con un breve discorso introduttivo quello che sarebbe stato il programma della giornata, poi ci hanno accompagnato negli studi di registrazione.

Abbiamo simulato un servizio radiofonico; guidati dalla giornalista Ilaria Linetti, i responsabili del progetto ci hanno mostrato come realizzare un servizio, tra cabine di regia e conduzione. In questa fase abbiamo simulato e imparato a mandare in onda la sigla di testa e di coda del telegiornale, a introdurre servizi di inviati e a regolare le impostazioni audio. Questo è stato uno dei momenti più interessanti della visita perché ci ha permesso di constatare l’enorme lavoro necessario per produrre ogni servizio giornalistico, anche della durata di pochi minuti. Abbiamo capito che il giornalista e il tecnico devono comprendersi e intendersi rapidamente e  che alla messa in onda del telegiornale deve collaborare tutta la redazione .

Abbiamo visitato anche l’archivio dove vengono custoditi i servizi audio e video che la Rai ha realizzato nel corso degli anni. Abbiamo avuto la possibilità di verificare che anche il materiale dell’archivio storico sta venendo via via digitalizzato: questo è il luogo dove si incontrano il passato e il futuro del giornalismo ed è stato affascinante poter ammirare questo delicato e complicato processo da vicino.

Siamo poi stati accompagnati nello studio dove si registra in diretta il telegiornale regionale.

Ci è stata data la divertente ed emozionante possibilità di simulare una diretta del Tg, di calarci nei panni di conduttori, giornalisti ed inviati speciali, di tecnici e direttori della regia. Abbiamo imparato anche attraverso la pratica che per la riuscita del telegiornale è necessaria una grande collaborazione tra tutte le figure professionali e che, quando si va in onda in diretta, bisogna saper gestire  l’errore e non fermarsi.

Confrontandoci tra noi, una volta terminata la visita, ci siamo accorti che siamo rimasti tutti particolarmente colpiti dallo studio televisivo che fino a quel momento avevamo visto solo sullo schermo.

Quest’esperienza è stata molto importante per il nostro orientamento professionale: oltre al fatto che per la prima volta abbiamo potuto vedere dal vivo dei professionisti all’opera, i responsabili della visita si sono dimostrati molto disponibili e attenti nel rispondere alle nostre domande, fornendoci  numerosi consigli utili per la scelta del percorso di studi.

La professione del giornalista, hanno ribadito, è in parte un lavoro di sacrifici, ma anche di grande stimolo e soddisfazione.

Il Futuro dell’ istruzione è a portata di un click

Il progetto Campbus, organizzato dal Corriere della Sera, ha coinvolto scuole italiane in un’esperienza pratica su tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale. Gli studenti hanno creato video, podcast e interviste. Dopo la presentazione degli elaborati, il vincitore è il Liceo Classico Andrea D’Oria di Genova.

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Ennio Tomaselli: il magistrato scrittore

di Lisa Ferrari e Maria Roccella, 1B. 

Quest’anno l’autore dell’incipit per il progetto “Staffetta di scrittura” a cui ha partecipato la 1B del Liceo D’Oria non è solo un romanziere, ma anche un ex magistrato minorile: Ennio Tomaselli. 

Nato presso Firenze, si è trasferito con la famiglia a Torino, nel quartiere delle Vallette. Il magistrato abita tuttora nel capoluogo piemontese con la moglie Rosamaria. Si è laureato in giurisprudenza nel 1978 e ha superato il concorso d’ingresso in magistratura, per diventare giudice penale del tribunale di Torino dal 1978 al 1986. Ha partecipato anche ad alcuni processi in corte d’Assise, e nell’86 è diventato giudice del tribunale per i minorenni. Tomaselli, forse anche per aver lavorato come giudice minorile, si sente a suo agio in presenza dei ragazzi e ci tiene a valorizzare questa esperienza. Si è sempre impegnato ad incontrare i giovani e parlare con loro, anche se a distanza. Il 3 dicembre 2024 la classe 1B del liceo classico Andrea D’Oria di Genova ha avuto la possibilità di contattare lo scrittore tramite videoconferenza  meet, per porgli alcune domande.

Ha sempre voluto diventare un magistrato, oppure se n’è convinto strada facendo?

Ho deciso di diventare magistrato alle scuole superiori, in quinta liceo, perché fino ad allora ero molto indeciso su quale carriera intraprendere. Mio padre faceva parte del corpo di polizia e forse la mia scelta è stata indirizzata anche dall’ambiente in cui sono cresciuto. All’esame di maturità mi è stato chiesto da un membro esterno cosa volessi fare dopo l’università ed è stato allora che ho espresso per la prima volta questo mio desiderio.

Com’è stata per lei l’esperienza del liceo?

Ho frequentato il classico e a dire la verità, il primo anno ho avuto non pochi problemi…sono stato rimandato in latino, matematica, greco e italiano. Anche dopo aver studiato tutta l’estate mi hanno bocciato, ma grazie al sostegno dei miei genitori sono riuscito ad andare avanti e alla fine ho lasciato la scuola con il massimo dei voti. Dopotutto a volte nella vita ci sono momenti di difficoltà, ma si possono sempre superare con la fiducia in sé stessi e il supporto dei propri cari.

In quanto magistrato lei deve aver affrontato casi di ragazzi che avevano completamente perso la loro strada. Qual è stato il caso più importante e difficile che abbia mai incontrato? 

A dire la verità tutti i casi che ho affrontato sono importanti per me, anche quelli meno complessi. Ho sempre cercato di non essere superficiale mentre analizzavano i diversi problemi, perché al di là dell’apparente semplicità della situazione nulla si deve dare per scontato. Sia che stessi scrivendo la sentenza (ad esempio del caso “Erika e Omar”) sia che stessi esaminando una pronuncia sullo stato di adottabilità, non ho mai smesso di sentirmi responsabile del minore che mi stava davanti. Infatti sbagliare su una di queste pronunce avrebbe potuto portare a delle conseguenze psicologiche irreversibili per la persona in questione.

La carriera di magistrato sembrava esserle molto a cuore, quindi per quale motivo ha scelto di abbandonarla per diventare scrittore? 

La legalità è stata senza dubbio una parte importantissima della mia vita, ma ad un certo punto ho sentito il bisogno di abbandonarla. Ho optato per il pensionamento anticipato perché mi era parso di aver completato un certo percorso di lavoro e di vita e quindi di potermi permettere, essendo già nelle condizioni per accedere alla pensione, di sperimentare qualcosa di diverso e, magari, “diversamente utile”. Ormai passavo perfino le vacanze a scrivere sentenze! Non avevo più tempo da dedicare a me stesso e alle mie passioni: così ho deciso di lasciare la magistratura per esplorare nuove forme di linguaggio con cui esprimermi.

Facendo sedimentare i ricordi della mia carriera, ho scritto quattro romanzi e un saggio intitolato “Giustizia e ingiustizia minorile”. In pratica ho continuato a partecipare alla questione minorile, solo in un modo diverso e con maggiore tranquillità.

Anche la scrittura quindi è molto importante per lei: ma cosa significa per lei scrivere? 

Secondo me la scrittura nasce dall’emozione, da quello che si vuole comunicare. Per me è molto importante esprimere la mia opinione per quanto riguarda la legalità ed è proprio per questo che sono diventato autore. I miei libri rispecchiano la realtà della vita, sono inventati ma realistici: penso che non riuscirei mai a scrivere un romanzo fantasy o di fantascienza. In essi ho narrato la storia di qualcun altro ma parlando di me: ogni scrittore alla fine racconta di sé nelle sue opere.

I libri in cui forse mi sono immedesimato di più sono stati quelli che fanno parte di una piccola trilogia, formata da Messa alla prova, Un anno strano e Fronte Sud. Il protagonista di questi romanzi è il magistrato Malavoglia, che rispecchia molto la mia esperienza personale. Alla fine dell’ultimo libro Malavoglia esce di scena, lasciando alle persone più giovani il suo posto, proprio come ho fatto io.

                  FronteSud

Avrebbe un messaggio da lasciare a queste nuove generazioni, signor Tomaselli?

Certamente…per voi andare avanti forse sarà difficile, ma il futuro è nelle vostre mani.  Volevamo lasciarvi un mondo migliore ma non tutto è possibile. Però come dice un antico proverbio africano: “ognuno è responsabile degli occhi che guarda”. Per questo vi posso lasciare il mio più grande augurio di un domani luminoso.

Grazie mille per il pensiero. Comunque secondo noi lei e i suoi colleghi magistrati siete davvero riusciti a migliorare il nostro presente! Avete riscattato tante giovani vite, che altrimenti si sarebbero perse. Ci potrebbe raccontare come riusciva a gestire i colloqui con gli imputati? 

In un processo minorile è necessario usare un linguaggio informale per favorire la comunicazione. Di solito preferisco l’uso del “tu” e cerco di non mettere soggezione al ragazzo che ho davanti. Trovo che sia molto utile chiedere l’opinione del minore sulla situazione, per sapere cosa ne pensa. In un processo dove l’imputato è adulto il tono usato è naturalmente più formale.

Secondo lei quanto è cambiata la giustizia minorile negli ultimi anni?

È cambiata molto. Nel settore civile, ad esempio, con maggiori garanzie complessive e in particolare, per i ragazzi, grazie a norme che ne prevedono o esigono l’ascolto, da una certa età in poi, nelle procedure i cui effetti sono destinati a ricadere su di loro. Parlo anche di procedure di particolare rilievo, come quelle di adottabilità e di decadenza di uno o entrambi i genitori dalla responsabilità (un tempo potestà) genitoriale.

E invece cosa accade nei casi in cui è il minore a compiere il reato? 

Il minore ovviamente viene sottoposto ad un tribunale, viene stabilita una sentenza e se il ragazzo è colpevole di grave reato viene mandato in prigione. Tuttavia si tratta sempre di una condizione temporanea, anche se può durare per diversi anni non si tratta mai di una condanna a vita. In alcuni Stati si favorisce l’ergastolo anche per i minori ma la Corte Costituzionale ha stabilito che esso è incompatibile con la giustizia minorile. Questi ragazzi sono ancora giovani e nella maggior parte dei casi è possibile anche un buon reinserimento nella società.

Ma come si può prevenire il reato minorile secondo lei? 

Per prevenire reati gravi come omicidi serve fin da subito un’azione all’interno della famiglia, il primo nucleo sociale, poi della scuola e delle associazioni educative. Ad esempio il volontariato è un buon modo di imparare ad agire per il bene degli altri.

E per quanto riguarda la sua esperienza con i migranti? Come mai ha basato l’incipit proprio su questo tema? 

La migrazione è una realtà molto attuale e molto spesso sottovalutata. Le immigrazioni dagli altri Paesi sono ben più pericolose e segnano nell’anima le persone che le intraprendono. Ho preso ispirazione per il mio incipit, da un gruppo di volontari triestini che accolgono tutti i giorni i viaggiatori della rotta balcanica. Così, ecco, ho pensato di portare questo tema anche fra due ragazzi come potreste essere voi…che discutono in riva al mare.

Giusto, Gabriel e Alessandra, i due protagonisti dell’incipit, l’uno più indeciso e l’altra più determinata. Si aspettava che fosse Alessandra a diventare la protagonista dei capitoli successivi? 

Certamente, Alessandra fin dal principio sembra la più coraggiosa e decisa a cambiare le cose. Secondo lei la migrazione non è una questione per politici o adulti ma per tutti, anche loro che sono ragazzi secondo lei possono fare la differenza!

Grazie mille  per la sua disponibilità e la sua gentilezza nel rispondere alle nostre domande. Siamo sicuri che ricorderemo questo incontro con lei per molto tempo. 

Perché gentilezza e spiritualità fanno bene alla salute

di Irene Collufio, Margherita Fazioli e Vittoria Gandolfo, 4B

Il cervello produce pensieri come il fegato secerne bile.

Patrizia Balbinot e Gianni Testino del Dipartimento “Educazione ai corretti stili di vita” di Asl 3, durante il convegno “Spiritualità, gentilezza, consapevolezza: in cammino verso uno stile di vita etico e libero” tenutosi a Palazzo Ducale la mattina del 19 novembre, hanno smentito quest’affermazione di Pierre Cabanis, filosofo francese vissuto nella seconda metà del Settecento, un’affermazione nettamente materialistica, che riduce l’uomo a pura chimica.

La relatrice ha spiegato che l’uomo è dotato di un meccanismo sofisticato per elaborare i pensieri, ovvero il cervello, che costituisce quindi la componente chimica, tuttavia sono necessarie anche le idee, che costituiscono invece quella spirituale.

La chimica del cervello ha bisogno di essere indirizzata da un’energia intelligente che viene dall’esterno, che prende il nome di spirito, il quale vive oltre la fisicità e ciò significa che è trascendente. Lo spirito non si identifica con la mente, con cui però deve trovare un equilibrio al fine di garantire il benessere psicofisico.

Per fare fronte al dolore inspiegabile che talvolta si fa strada dentro di noi,  molti potrebbero pensare che l’unica soluzione sia la medicina che offre trattamenti farmacologici; invece un’alternativa da non sottovalutare, sperimentata anche a livello scientifico nell’approccio ad alcune sofferenze, come quelle causate da dipendenze, è quella di aprirsi, sperimentando e compiendo un percorso spirituale sull’interiorità, senza il quale la medicina si rivelerebbe utile solo in maniera limitata.

Il corpo umano è un tempio e come tale va curato e rispettato sempre.

Ippocrate, medico vissuto nell’Antica Grecia e considerato il padre della medicina scientifica, con questa affermazione attribuisce assoluta importanza al corpo, tuttavia insieme alla carne deve essere curato anche lo spirito, poiché senza equilibrio risulta impossibile raggiungere il benessere di entrambe le dimensioni.

Il dottor Testino ha poi esposto le conseguenze sul piano neurologico di alcuni comportamenti sociali, quali ad esempio gli atti di gentilezza che possono causare una riduzione dei telomeri, responsabili della formazione delle rughe. Gentilezza, empatia e altruismo hanno vari effetti positivi sull’organismo, come l’aumento della vita media, la riduzione di infiammazioni e di patologie cardiovascolari, il contenimento dell’aggressività e infine sono un argine contro le dipendenze.

La gentilezza e l’intelligenza spirituale sono caratteristiche innate, però le possiamo coltivare ed allenare, invece che abbatterle e reprimerle, attraverso l’educazione, che attiva i percorsi neurologici della gentilezza.

Sappiamo quindi che la gentilezza fa bene alla salute, ma soprattutto che ci rende persone eticamente libere.

 

 

Pensare significa ringraziare

La filosofia come arte di vita, nell’intervento al Ducale di Simone Regazzoni

di Rocco Ciliberti e Giovanni Agosti, classe 4B

Viviamo in un’epoca dominata da social media e comunicazione istantanea in cui  il pensiero rischia di essere relegato a un semplice esercizio mentale, disconnesso dalla realtà. C’è però un modo per evadere da questa realtà opprimente.

Come affermava il filosofo Martin Heidegger, “pensare significa ringraziare”. L’affermazione non è solo un invito alla riflessione, ma è anche una chiamata a riconoscere il valore dell’eredità culturale che ci è stata trasmessa, sviluppando la capacità di tradurla in un’esperienza concreta.

L’atto del pensare, visto in quest’ottica, diventa un atto di gratitudine. Ogni pensiero deve trovare risposta in un’eredità, dando al presente un’interpretazione che si origina da un passato ricco di significato. Eppure, in un mondo in cui il pensiero è spesso confinato nella bolla dei social, è fondamentale riscoprire la fatica del pensiero, che non indica una fatica fine a sé stessa, ma un processo necessario per uscire dalla zona di comfort e abbracciare la trasformazione personale.

Simone Regazzoni

Come affermava Platone, “non dobbiamo essere zoppi davanti alla fatica per diventare filosofi”. La fatica, quindi, non è un ostacolo, ma un ponte verso la sapienza.
Simone Regazzoni, filosofo contemporaneo, intervenuto al Convegno ““Spiritualità, gentilezza, consapevolezza: in cammino verso uno stile di vita etico e libero” tenutosi a Palazzo Ducale il 19 novembre, ci ha invitato a riflettere intorno a un concetto fondamentale: la filosofia non è solo un insieme di teorie astratte, ma un vero e proprio stile di vita, come suggerisce l’espressione greca τέχνη του βίου.

 

Applicando questo concetto si presuppone che la filosofia debba essere vissuta, incarnata sia nel nostro corpo che nella nostra mente. Non bisogna trascurare il corpo nel nostro percorso di crescita intellettuale ma, al contrario, è solo attraverso l’unione di mente e corpo che possiamo diventare filosofi completi.

Il miglior esempio che offre un’immagine potente di questo processo è il mito della caverna di Platone: gli uomini, seduti con la schiena contro il muro, devono alzarsi per scoprire la luce della verità. Il primo a compiere questo gesto è colui che inizia il suo cammino filosofico, un movimento che simboleggia la vita stessa. Per i greci il movimento era sinonimo di esistenza, noi infatti siamo vivi perché ci muoviamo, sforzandoci di superare le nostre limitazioni.

Diventa, quindi, cruciale, in un’epoca in cui il pensiero può facilmente diventare passivo, riscoprire il valore della fatica. Ogni passo verso la conoscenza richiede sforzo e impegno, e ogni pensiero profondo è il risultato di un’interrogazione attiva del mondo che ci circonda. Dobbiamo essere grati per questa fatica, perché è attraverso di essa che possiamo veramente comprendere l’essenza e la profondità delle cose.
Pensare quindi è un atto di gratitudine verso il passato e un impegno verso il futuro. La filosofia, come stile di vita, ci invita a integrare mente e corpo, a muoverci verso la luce della verità e a non temere la fatica. Solo così possiamo diventare filosofi completi capaci di affrontare le sfide del presente e di costruire un futuro migliore.
In conclusione quindi possiamo dire che la vera filosofia non è solo pensiero, ma è anche un movimento, un viaggio che ci porta oltre i confini del conosciuto, verso un’illuminazione sempre più profonda.

La Lisistrata di Aristofane per gridare insieme: “Viva la pace”

Il progetto Siracusa arrivato alla sua X edizione, porta in scena “Lisistrata” di Aristofane nell’adattamento del regista Enrico Campanati, da sempre coinvolto nella realizzazione di questa iniziativa.

Il testo, scelto direttamente dagli studenti che hanno colto da subito la grande attualità del tema della pace, sottolinea la necessità della partecipazione attiva delle donne alla costruzione di un futuro libero da conflitti.

 

Ventiquattro gli studenti   coinvolti delle classi quarte e quinte, che hanno partecipato con passione e impegno al laboratorio annuale, con la guida delle professoresse Marina Terrana, Paola Maria Di Stefano, Laura Dolcino, Ambra Tocco.

 

Lo spettacolo rappresentato il 15 maggio, nel teatro antico di Palazzolo Acreide nell’ambito del Festival del teatro classico nazionale giovani, promosso dall’ INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), ha avuto come spettatori gli studenti delle classi quarte B, D, F, G, I e delle altre scuole coinvolte.

   

Il viaggio ha permesso anche la visita di importanti siti del patrimonio artistico culturale, quali Pompei, la valle dei Templi di Agrigento, la Neapolis di Siracusa, Monreale, Noto, Modica e Ragusa Ibla.

Risate, riflessioni applausi e la domanda:

“E se avessero ragione le donne?

Forse è ora di piantarla con le guerre.” perché abbiamo capito che “la nostra cosa più dolce e più bella poteva essere capace di stendere a terra i più grandi e potenti eserciti, senza spargere sangue”

“La vita sarà una festa che non finisce mai. Viva la pace “

 

Un cane robot per il porto di Genova

di Vittoria Gandolfo e Lucia Riggio, 3B – Liceo Classico A. D’Oria Genova

Un cane robot in grado di mettersi in relazione con persone in difficoltà o di sostituire l’uomo in missioni troppo rischiose.

Come ha spiegato Antonio Sgorbissa, professore di Robotica dell’Università di Genova, agli studenti del liceo D’Oria, nasce proprio in Liguria, nell’ambito dello Spoke 4 del progetto Raise (Robotics and aI for socio-economic empowerment), l’innovativo progetto di utilizzo del cane-robot per l’ ispezione nelle stive delle navi, specie in situazioni di pericolosità per l’uomo, sia per la radioattività dei container sia per la loro precarietà in caso di gravi eventi meteorologici.

Perché proprio un robot con sembianze canine?

Ci sono funzioni legate specificamente alla forma del cane, che sfruttano la sua agilità, la possibilità di muoversi a quattro zampe in ambienti difficili e lo rendono più adatto dell’uomo alla ricerca di persone in caso di grandi calamità naturali o di  ispezioni in ambito portuale legate alla sicurezza.

Le applicazioni sono quindi molteplici, ma nel porto di Genova potrebbe essere una soluzione per incrementare la sicurezza sul posto di lavoro.

Infine – come la dottoranda in robotica Zoe Betta ha fatto sperimentare agli studenti del D’Oria – il robot è semplice da utilizzare: cammina, saltella, evita ostacoli in modo autonomo o manovrato da un joystick.

Come funziona Spot?

IL cane robot Spot nell’Aula di fisica del Liceo D’Oria

Prima di capire come è strutturato questo futuristico  cane-robot, è necessario capire da quali parti è composto un qualsiasi robot. In generale, un robot  – ha spiegato Sgorbissa – è costituito da diverse componenti, fisiche o meccaniche, “links” o “joints”, quali attivatori (ne permettono il movimento), sensori (ovvero dispositivi in grado di di percepire l’ambiente intorno a esso, come telecamere o ultrasuoni).

In particolare questo cane-robot è dotato di cinque telecamere, per rendere l’idea della profondità degli oggetti. Queste telecamere hanno tuttavia una bassa qualità, motivo per il quale spesso se ne aggiunge una sesta, esterna. Altre componenti di Spot, il cane-robot, sono un lidar (acronimo di “light detection and ranging”), ossia un sistema di telerilevamento,  per la mappatura dello spazio e un computer di bordo.

Per migliorare le prestazioni di ogni tipo di robot quadrupede sta prendendo piede un framework all’avanguardia: ABS (agile but safe), che mira a fornire un’incredibile agilità ma anche una straordinaria capacità di evitare collisioni, al fine di rendere ogni cane robot incredibilmente agile senza andare ad intaccare la sicurezza nell’ambiente intorno ad esso.

Questo sistema si sviluppa in un approccio basato sull’apprendimento e rappresenta un vero spartiacque nella storia della robotica sociale e d’emergenza.

Grazie a questo sistema un cane robot avrà la possibilità di raggiungere i 3 m/s incorrendo in sempre meno incidenti. Secondo i ricercatori che approfondiscono la tecnologia ABS, il loro contributo alla robotica si articolerà in cinque punti, quali, ad esempio nuovi metodi di “allenamento” del robot che porteranno alla possibilità di evitare ostacoli senza dover diminuire la velocità e una rete di rappresentazione degli stimoli esterni che possa aiutare a individuare ostacoli anche di piccole dimensioni per eliminare quasi totalmente la possibilità di collisione.

Tutti i vantaggi di Spot

Spot si trova sul mercato ( è un prototipo proposto dalla statunitense  Boston Dynamics)  per un prezzo che può variare da 70.000 a 200.000 euro, naturalmente a seconda dei componenti installati su di esso, che ne modificano le funzioni.

Ma quali sono veramente le motivazioni per cui si dovrebbe preferire utilizzare un robot dalla forma di un cane invece che un vero e proprio cane? Robusto e preciso, Spot può trasportare carichi, essere utilizzato

In ambienti pericolosi per un essere vivente, quali rilevamento di bombe ed esplorazioni in luoghi sconvolti da disastri naturali.

Dunque questi macchinari permettono di non compromettere la sicurezza degli esseri umani e allo stesso tempo di portare a termine missioni rischiose.

Inoltre, naturalmente, Spot presenta tutti i vantaggi dati dal fatto che non è un essere vivente: non ha bisogno di cure e attenzioni che sono invece necessarie per un cane normale, non si stanca, ha una durata molto maggiore, è più preciso e meno soggetto a distrazioni o a qualsiasi tipo di complicazioni che possono sopraggiungere quando si lavora con un essere vivente.

Al momento il cane-robot dell’Università di Genova è ancora in una fase sperimentale, in attesa di venire impiegato in ambito sociale e d’emergenza.

 

 

Il nostro migliore amico a quattro zampe … robotiche.

di Alessandro Pastore, Giovanni Agosti, Tommaso Agostini, classe 3B – Liceo classico A. D’Oria

Spot, il cane robot che il 21 maggio ha camminato e saltellato, per la gioia degli studenti, lungo i corridoi e nell’Aula di fisica del Liceo D’Oria è nero e giallo, pesa circa 30 chili, risponde ai comandi di un joystick e può vedere e riconoscere gli ostacoli sul suo cammino grazie a cinque telecamere e a un sistema di sensori.

La struttura meccanica di Spot è stata acquistata dalla statunitense Boston Dynamics, ma il software che lo fa muovere è stato creato dai ricercatori del laboratorio RICE dell’Università di Genova.

Antonio Sgorbissa, docente di robotica presso l’ateneo genovese ha spiegato agli studenti che l’obiettivo è quello di rendere più intelligente possibile Spot affinché possa essere utilizzato in situazioni estreme come terremoti e incendi. Attraverso il cane robot e le sue telecamere è possibile vedere cosa sta accadendo per poi impiegare successivamente le forze umane, con minore rischio.

Il cane robot  – ha spiegato Zoe Betta, dottoranda in Robotica e addestratrice ufficiale di Spot – è in grado di captare i rumori emessi da eventuali persone sopravvissute, di interagire con loro e comprendere la loro condizione. Inoltre è in grado di percepire eventuali crepe nei muri danneggiati. Spot ovviamente non sostituisce i cani normali o i soccorritori della Protezione civile, ma li affianca affinché le operazioni di salvataggio siano più veloci e efficaci.

E lo fa tanto bene che ha già vinto un premio, trionfando nella gara di cani robot svoltasi all’European Robotic Forum, svoltosi a Rimini lo scorso 15 marzo: si è dimostrato il più agile e veloce nel superare ostacoli lungo un percorso dato.

Spot potrà essere utilizzato anche per ispezionare le stive delle navi prima delle operazioni di scarico per rilevare eventuali situazioni pericolose dopo le mareggiate che spesso compromettono la stabilità del carico.

Sgorbissa ci ha tenuto a precisare che la ricerca è continua e l’Università di Genova sta andando avanti ragionando su nuove possibilità di applicazione del cane robot.