di Martina Garbato, Maria Sole Lunardon, Alessia Montaldo, Camilla Strazza e Rachele Tinella, 3C

 

Guerra: quante volte la sentiamo nominare nella nostra quotidianità? Ma soprattutto, quanti sono consapevoli di ciò che comporta realmente?

Negli ultimi decenni, nella percezione comune in molti contesti, questo termine è stato sempre più spogliato della sua concretezza, come risultato di una sorta di involontaria imperturbabilità che sembra portare a considerarla parte integrante, per così dire “normale” o “inevitabile”, della vita della nostra società.

Nel mondo, secondo l’edizione di giugno 2024 del Global Peace Index pubblicato dall’Institute for Economics and Peace, sono attivi 56 conflitti, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per concretizzare questo dato, si pensi che il numero stimato di persone coinvolte in un conflitto è un sesto della popolazione mondiale, circa 1,33 miliardi di individui che subiscono gli effetti della guerra.

Come tutti i prodotti delle società umane, anche la guerra ha avuto una propria nascita e una propria evoluzione storica, anche con cambiamenti radicali, specialmente con la drastica svolta novecentesca del coinvolgimento —senza precedenti — diretto e “globale” delle masse nei conflitti.

Se la guerra, con tutte le sue differenze, ci appare come una costante della storia degli Stati, in noi giovani spesso si sviluppa o viene sviluppato un sentimento di netto rifiuto della guerra. In questo possiamo riconoscere anche un’eredità di quel movimento di opposizione alla guerra di massa che ha accompagnato in modi diversi i grandi conflitti del ‘900 e del nuovo millennio e che è nato insieme a questa stessa forma di conflitto con la Prima Guerra Mondiale.

A scuola, leggendo l’Iliade, il modello più antico e autorevole del canto delle “glorie” belliche “degli uomini” nella tradizione occidentale, non ci aspettavamo di trovare una considerazione della guerra e dei suoi effetti in molti aspetti così vicina a quella che anima quel movimento di opposizione di cui noi stesse ci sentiamo eredi.

 

Il “castello di sogni” che fu la Belle Époque

La Belle Époque (1879-1914), definita “castello di sogni” dallo scrittore Stefan Zweig ne Il mondo di ieri, è il periodo della storia europea di inedita crescita economica, sociale e culturale che precede e “prepara” la Prima Guerra Mondiale: dalle innovazioni in campo ingegneristico-meccanico, chimico, energetico e delle telecomunicazioni a quelle mediche, con l’introduzione dei vaccini e l’inedito miglioramento delle aspettative di vita media, dallo sviluppo di nuovi settori produttivi, che si accompagna all’elaborazione del modello di Taylor per un drastico aumento della produttività industriale, all’affermazione dello sport come fenomeno di massa, le condizioni di vita, anche quelle delle classi sociali più basse, sembrarono migliorare sensibilmente.

Tuttavia, la Belle Époque non è stata terreno fertile solamente di progressi a vantaggio dell’umanità.

Sembra paradossale che, in un periodo storico così florido, le Nazioni si stessero preparando a un conflitto di portata mondiale, potenziando straordinariamente il settore di produzione bellico e ponendo le basi per un fitto piano propagandistico.

Armi come i gas asfissianti e le mitragliatrici hanno trasformato la guerra in uno strumento di distruzione di massa, che coinvolge l’intera società e getta sui campi di battaglia intere generazioni e distrugge interi paesi: in questo senso, ossia in termini di potenziale distruttivo, lo sviluppo del settore bellico infatti ha portato a un drastico cambiamento di quella che era stata la natura della guerra, pur con radicali differenze nel corso della storia precedente, fino ad allora.

 

La costante della guerra

Ciò che non sembra cambiare è il ruolo fondamentale giocato dall’ideologia nell’ambito di un conflitto.

Partiamo dall’antico letterario: la vicenda si svolge sulla piana davanti a Troia, negli ultimi mesi di quella che è stata una logorante guerra durata quasi dieci anni. Si sarebbe tentati di chiedersi per quale motivo i guerrieri non si siano ritirati prima da un conflitto tanto logorante e la risposta è insita in quella che viene comunemente chiamata dagli studiosi “civiltà della vergogna”, riflesso dell’etica aristocratica arcaica basata sulla catena di concetti ἀρετή «coraggio», τιμή «onore», κλέος «gloria» e γέρας «premio», che si riferiscono al riconoscimento sociale dell’eccellenza di un eroe. Lo stesso personaggio di Achille motiva la propria presenza a Ilio, dove sa che perderà la vita per la “gloria”, esclusivamente sulla base della rete di ideali costruiti e promossi dalla società aristocratica arcaica che ha prodotto questo personaggio.

Nella realtà bellica del 1914, la Prima Guerra Mondiale ha registrato un’ingente mobilitazione, si parla infatti di 62,5 milioni di soldati. La propaganda spinse i giovani a manifestare la volontà di entrare in guerra, ma una volta al fronte, quegli stessi giovani conobbero gli orrori che questa comportava — “tante infamie e tanti guai che succedeno ner monno fra le spade e li fucili de li popoli civili” (Trilussa, Ninna nanna della guerra) — e fecero esperienza diretta di quanto quella realtà fosse diversa dalle varie costruzioni ideologiche sfruttate dalla propaganda interventista. Il singolo soldato, infatti, si trovava di fronte a due possibilità: morire per mano del nemico o, in caso di rifiuto del combattimento, ucciso dai propri generali, mediante la pratica della decimazione o di altre forme di esecuzione sommaria.

 

“Nemici” o semplicemente “esseri umani”?

A partire dal 28 giugno 1914, si innescò un processo di reazioni che portò allo scoppio di un conflitto formalmente presentato come “lampo”, ma che in breve tempo si rivelò di fatto un’estenuante guerra di trincea, un ambiente estremamente malsano, in cui gli uomini vivevano come bestie e sotto la continua minaccia della morte, in battaglia o per il logoramento fisico provocato dalla vita in trincea, in cui le morti lontane dai propri cari erano all’ordine del giorno. Proprio in questo contesto così disumano si è manifestata l’umanità dei soldati che, in un processo graduale, si avvicinarono non solo tra commilitoni, ma anche tra membri di schieramenti opposti, dando origine alle cosiddette fraternizzazioni al fronte (tra le prime si ricorda quella del Natale 1914). Con questo termine si identificano quegli episodi che hanno visto i soldati opporsi alla prosecuzione del massacro.

A questo proposito, ci sono giunte testimonianze di soldati britannici e tedeschi che, nella tragicità della situazione e consapevoli delle conseguenze che ciò avrebbe portato, hanno organizzato tra loro un torneo di calcio e intonato a una sola voce canti natalizi in lingua anglosassone.

Forse la condivisione della medesima condizione umana può essere più forte delle più varie costruzioni storiche dell’“idea del nemico”? Forse tutti i soldati costretti a massacrarsi fra loro hanno lo “stesso identico umore”, e solo “la divisa di un altro colore” (F. De André, La guerra di Piero)?

    

L’incontro tra Glauco e Diomede o il toccante confronto tra Achille e Priamo, due delle scene letterarie più celebri della tradizione occidentale, mostrano “nemici” che si spogliano di questa reciproca condizione e si ritrovano semplicemente “uomini”. Di fronte all’orrore di un fenomeno che tende a privare della propria umanità gli uomini coinvolti, questi la riscoprono proprio nel riconoscimento della loro comune condizione esistenziale, di coloro che “altre forze” hanno posto a massacrarsi su fronti contrapposti, di coloro che appartengono a quell’unica effimera e fragile stirpe che come le foglie, dopo una breve primavera, è destinata a cadere dando spazio a nuove generazioni (Il. VI 145-149), di coloro che la guerra vorrebbe acerrimi nemici, come Achille e Priamo, e che invece, in un processo narrativo di progressiva identificazione tra le figure di Achille ed Ettore e Peleo e Priamo, si presentano al pubblico come due facce della stessa medaglia e vittime delle atrocità della medesima guerra rivelatasi alla fine null’altro che tragica per entrambi (Il. XXIV).

L’ultimo incontro tra Ettore, Andromaca e il piccolo Astianatte, nel VI canto dell’Iliade, raggiunge un picco di tragicità potenziato dalla semplicità e dalla tenerezza della scena, che contrasta con il ben noto destino dei tre personaggi, morte violenta e schiavitù, e che può forse presentarsi alla nostra lettura come un invito a non sottovalutare le condizioni di pace in cui per il momento abbiamo la fortuna di vivere la nostra quotidianità.

 

Forse “l’uomo” non ama poi tanto la guerra…

Andando oltre le modalità, i numeri e le armi, se ci si sofferma su quello che è il risultato ultimo della guerra, su ciò che, cessati i combattimenti, realmente resta, emerge quella che sembra forse la principale costante di questo fenomeno: nient’altro che morte, distruzione e disgregazione delle famiglie e dell’amore fisiologico che le unisce.

Non può non suscitare almeno una riflessione il fatto che proprio questi aspetti del conflitto, ossia le sue devastanti conseguenze, costituiscano i cardini della narrazione principale e della riflessione dei personaggi — specialmente nell’evoluzione della vicenda e nelle battute dei due protagonisti, Achille ed Ettore — dell’Iliade, ossia del più antico e noto “canto di guerra” della tradizione letteraria occidentale. Forse “l’uomo” non ama poi tanto la guerra…