Le pietre d’inciampo: memoria e riflessione sull’Olocausto

di Camilla Carratù, Gilda Agosti, Maria Giovanna Lauria, Chiara Torazza, 2B

Il ricordo della Shoah non deve essere limitato solo al 27 gennaio, Giornata della Memoria, deve vivere in noi tutti i giorni, ma spesso la nostra mente è occupata da così tanti pensieri che, camminando e guardando a terra, non ci accorgiamo neanche di piccoli frammenti di storia che abbiamo nelle nostre strade.

La 5F del nostro Liceo Classico, seguita dalla professoressa Borello,  ha organizzato un percorso guidato sulle pietre d’inciampo nel centro di Genova per arrivare al cuore degli studenti del Liceo D’Oria.

Qui  e in videoteca il video realizzato dagli studenti di 2B, guidati dalla professoressa Dolcino

Ma cosa sono le “pietre d’inciampo” e perché si chiamano così? Le pietre d’inciampo sono dei  piccoli blocchi di pietra ricoperti da una lastra di ottone su cui sono incisi il nome e la data di deportazione di alcuni ebrei, come piccole targhe commemorative. Il loro nome è derivato dalla funzione che dovrebbero, o meglio, dovremmo fare loro assumere, ossia quella di farci proprio “inciampare” nella memoria di quel tempo per tenere sempre vivo nelle nostre anime il dramma vissuto da tanti uomini, donne e bambini.

La prima pietra ci è stata mostrata da Marco Vecchio; essa ricorda l’arresto di Giorgio Labò, uno studente di architettura che fu arruolato nel genio minatori e che, dopo l’armistizio, fu tradito da uno dei suoi compagni e in seguito catturato dalle SS tedesche. E’ stato prigioniero per 18 giorni; malgrado sia stato sottoposto a terribili torture, non rivelò mai niente negli interrogatori delle SS; venne fucilato con altri suoi nove compagni senza processo.

All’inizio di Galleria Mazzini abbiamo trovato la pietra di Riccardo Pacifici: laureato in Lettere Classiche all’Università di Venezia, divenne rabbino di Genova nel 1936 e venne arrestato nel 1943 dalle SS con la moglie e i suoi figli.

Percorsa Galleria Mazzini, ci siamo fermati in Largo Eros Lanfranco per  ascoltare da Elena Bisio, Petra Torrigiani e Agnese Dighero le storie di alcuni genovesi che hanno aiutato a nascondere degli ebrei: Francesco Repetto,  che nel 1943 ha guidato la delegazione ebraica, un’organizzazione che aiutava gli ebrei a emigrare e a stabilirsi in un nuovo paese; Pietro Boetto, cardinale e arcivescovo di Genova che forniva i beni necessari agli ebrei nascosti; Massimo Teglio, che  ha fatto parte dell’aviazione ed è riuscito a salvare circa 30.000 ebrei andando da Genova a Firenze e fornendo documenti falsi e denaro per i beni di prima necessità. Queste straordinarie persone hanno ricevuto una medaglia al valore per il coraggio dimostrato.

In via Bertola, accanto alla sinagoga di Genova,  sono situate le quattro pietre d’inciampo della famiglia Polacco: Camilla Icardi, Matilda Biasizzo e Claudia Tolomelli ci hanno raccontato la loro storia. Il padre, Albino Polacco, nel 1943 era il custode della sinagoga e venne arrestato con la moglie Linda e i due figli Carlo e Roberto. Molti persone che si trovavano all’interno della sinagoga si salvarono, invece,  grazie al gesto di una signora che dalla finestra sventolò un fazzoletto per avvisare dell’arrivo dei tedeschi.

Infine ci siamo recati davanti alla prefettura per ascoltare la storia di Ercole De Angelis, deportato al campo di Bolzano, assassinato il 18 aprile 1944; Italo Vitale, arrestato in corso Montegrappa il 10 dicembre del 1943 , fu recluso nel carcere di Milano fino alla sua deportazione ad Auschwitz, ma morì durante il terribile viaggio; Emanuele Cavaglione, gioielliere ebreo, si trasferì a Firenze per fuggire dalle deportazioni, ma fu ingannato e ucciso ad Auschwitz il 30 giugno 1944; Margherita Segre, moglie di Emanuele Cavaglione, fu arrestata col marito e portata al campo di Fossoli e morì lo stesso giorno del marito.

Le pietre d’inciampo rappresentano non solo un omaggio alle vittime delle persecuzioni naziste, ma anche un invito alla riflessione e alla memoria collettiva. Questi piccoli monumenti sparsi in tutta Europa, ci ricordano l’importanza di non dimenticare le ingiustizie del passato ed impegnarci per un futuro di rispetto e umanità.

Rai: dietro le quinte

Di Anita Corsi, Alexandra Delrio,  Lorenzo Moretti, Beatrice Pincelli, Giulia Portalupi, Federica Tanca, Emma Zini, 2B

La 2B si avventura nel backstage della Rai

Avere l’opportunità di visitare la sede regionale della Rai a Genova è stato davvero emozionante perché ci ha consentito di vedere per la prima volta quello che in futuro potrebbe diventare il nostro lavoro, veder applicare nella realtà tutto ciò che studiamo o vediamo in televisione tutti i giorni, attraverso una visita esclusiva ed unica per scoprire i segreti del mondo dei media.

Guarda il video con la nostra esperienza 

Durante il tour abbiamo avuto accesso alle tecnologie all’avanguardia e ai processi creativi che alimentano la produzione di contenuti televisivi e radiofonici. Dallo studio alla regia, ogni angolo della sede ha svelato un aspetto affascinante del lavoro che permette la realizzazione di programmi che raggiungono ogni giorno milioni di italiani. Un’esperienza che ha stimolato riflessioni sul ruolo dei media nella società contemporanea e sull’evoluzione del giornalismo e della comunicazione.

I giornalisti e i tecnici coinvolti nel progetto “Rai porte aperte” hanno iniziato la visita illustrandoci con un breve discorso introduttivo quello che sarebbe stato il programma della giornata, poi ci hanno accompagnato negli studi di registrazione.

Abbiamo simulato un servizio radiofonico; guidati dalla giornalista Ilaria Linetti, i responsabili del progetto ci hanno mostrato come realizzare un servizio, tra cabine di regia e conduzione. In questa fase abbiamo simulato e imparato a mandare in onda la sigla di testa e di coda del telegiornale, a introdurre servizi di inviati e a regolare le impostazioni audio. Questo è stato uno dei momenti più interessanti della visita perché ci ha permesso di constatare l’enorme lavoro necessario per produrre ogni servizio giornalistico, anche della durata di pochi minuti. Abbiamo capito che il giornalista e il tecnico devono comprendersi e intendersi rapidamente e  che alla messa in onda del telegiornale deve collaborare tutta la redazione .

Abbiamo visitato anche l’archivio dove vengono custoditi i servizi audio e video che la Rai ha realizzato nel corso degli anni. Abbiamo avuto la possibilità di verificare che anche il materiale dell’archivio storico sta venendo via via digitalizzato: questo è il luogo dove si incontrano il passato e il futuro del giornalismo ed è stato affascinante poter ammirare questo delicato e complicato processo da vicino.

Siamo poi stati accompagnati nello studio dove si registra in diretta il telegiornale regionale.

Ci è stata data la divertente ed emozionante possibilità di simulare una diretta del Tg, di calarci nei panni di conduttori, giornalisti ed inviati speciali, di tecnici e direttori della regia. Abbiamo imparato anche attraverso la pratica che per la riuscita del telegiornale è necessaria una grande collaborazione tra tutte le figure professionali e che, quando si va in onda in diretta, bisogna saper gestire  l’errore e non fermarsi.

Confrontandoci tra noi, una volta terminata la visita, ci siamo accorti che siamo rimasti tutti particolarmente colpiti dallo studio televisivo che fino a quel momento avevamo visto solo sullo schermo.

Quest’esperienza è stata molto importante per il nostro orientamento professionale: oltre al fatto che per la prima volta abbiamo potuto vedere dal vivo dei professionisti all’opera, i responsabili della visita si sono dimostrati molto disponibili e attenti nel rispondere alle nostre domande, fornendoci  numerosi consigli utili per la scelta del percorso di studi.

La professione del giornalista, hanno ribadito, è in parte un lavoro di sacrifici, ma anche di grande stimolo e soddisfazione.

Come l’evoluzione “ci ha reso esseri con una morale”: il Darwin Day 2025 al Liceo D’Oria

di Benedetta Lorenzon e Ginevra Venturi, 4D

Il 12 Febbraio 2025 presso il Liceo Classico Andrea D’Oria si è tenuta una conferenza in occasione del Darwin Day. Ma che cos’è il Darwin Day? Si tratta di un giorno dedicato al ricordo dello scienziato Charles Darwin, nato proprio il 12 febbraio del 1809, e delle sue incredibili scoperte in merito all’evoluzione della specie che ancora oggi forniscono importanti spunti di riflessione per comprendere l’andamento della società contemporanea. Ad introdurre il convegno, tenutosi nell’aula magna del liceo, la professoressa Martina Savio, che ha anche presentato i due relatori: Domenico Saguato, presidente dell’associazione Genova Solidale, e Bruno Sterlini, ricercatore UniGe e IIT (Istituto Italiano di Tecnologia).

A prendere per primo la parola è stato Domenico Saguato, che ha trattato l’evoluzione dell’intelligenza umana dalle origini fino ad oggi, il progressivo intervento dell’uomo sulla natura e la nascita del pensiero simbolico e del linguaggio

Ha descritto lo sviluppo dell’essere umano andando indietro nella storia di 3 milioni di anni, quando i primi ominidi cominciarono a scendere dagli alberi, per poi affrontare i successivi passi salienti della loro evoluzione: l’uomo iniziò a “scheggiare” pietre (“e non ha più smesso!”, afferma scherzosamente Saguato), da preda divenne predatore e modificò la propria organizzazione sociale in forme sempre più organizzate e complesse fino alla nascita della prima etica umana. Ad aver portato a ciò è stato sicuramente l’aumento di volume del cervello, al quale si è giunti, tra le altre cose, grazie a un radicale calo delle temperature, che ha ridotto la resa fruttifera degli alberi. A causa di ciò, da prede siamo diventati predatori: nella nostra dieta la carne si è accostata al consumo di frutti. Assumendo un maggior numero di calorie, dunque, il cervello ha potuto svilupparsi più rapidamente (dobbiamo tenere conto infatti che il 25% del fabbisogno calorico giornaliero viene bruciato dal cervello).  

Un cervello così grande però comporta alcune complicazioni: come si può facilmente intuire, infatti, è difficile per una donna partorire una progenie con un cranio di tali dimensioni. Iniziano dunque ad avvenire nascite anticipate: l’uomo è l’unica specie animale a nascere senza essere autosufficiente. Per essere accuditi, i neonati necessitano di numerose cure e, dunque, si va creando un gruppo numeroso che coadiuva la madre, all’interno del quale le relazioni tra gli uomini si fanno sempre più complesse. All’evolversi delle relazioni umane si affianca l’evolversi del cervello, e all’evolversi del cervello si affianca l’evolversi delle relazioni umane, secondo un rapporto dialettico. In questo contesto nasce l’etica. Se tra gli altri mammiferi esiste solo l’etica della madre che accudisce il figlio (grazie all’ossitocina, l’ormone mammifero dell’amore), per quanto riguarda gli uomini questo amore viene rivolto non solo al figlio, ma a tutta la tribù. La “morale dell’equità” (come lo psicologo Michael Tomasello definisce questo nuovo approccio degli uomini nei confronti dei loro simili) è il prodotto di un processo di una selezione di gruppo. Tra i vari clan esistenti, progredisce quello in cui i sentimenti di unità e coesione sono più radicati: se uniti, infatti, gli uomini riescono a procurarsi più facilmente le risorse necessarie alla propria sopravvivenza. 

Vivendo in società più complesse, i nostri antenati avevano bisogno di un mezzo di comunicazione all’avanguardia: non erano sufficienti i suoni inarticolati di cui gli animali si servono per esternare le proprie sensazioni, serviva un linguaggio in grado di esprimere i processi, un linguaggio simbolico che permettesse di fare astrazioni, elaborare concetti e immaginare mondi diversi dal nostro (importante citare a questo proposito il saggio “Etica e concezione materialistica della storia” di Karl Kautsky). 

Finito il suo intervento, Saguato lascia spazio a Sterlini, che racconta lo studio che il centro di ricerca di cui fa parte sta conducendo. L’obiettivo è coltivare in vitro parti di cervello che permettano di trovare nuove cure e, in generale, capire come funziona il nostro organo più complesso. Questo studio ha una grandissima portata innovativa, data la naturale difficoltà riscontrata nello studio del cervello (si può infatti studiare solo in modo indiretto, metodi come le biopsie non sono praticabili).

Per molti anni allo scopo di trovare cure per malattie neurologiche sono stati utilizzati come cavie i topi, in quanto possiedono molti meccanismi simili a quelli del cervello umano. Tuttavia, il limite di tale ricerca è palese.

Si iniziò dunque a capire la potenzialità che le cellule staminali (presenti fin da subito nell’embrione, in quanto permettono di creare qualsiasi parte dell’organismo) avevano per il successo di questi studi: in laboratorio queste possono essere utilizzate per creare parti di cervello. Inizialmente venivano estratte, nell’ambito dell’inseminazione artificiale, dagli embrioni: alcuni venivano impiantati, altri utilizzati per la ricerca. Questo metodo, tuttavia, possedeva limiti di natura etica. Viene dunque elaborata un’alternativa: cellule differenziate, quasi esclusivamente quelle epiteliali, iniziano a essere usate per creare cellule staminali, da cui si potranno successivamente creare parti di cervello (chiamate organoidi) utili alla ricerca.

Lo studio di Sterlini in particolare usufruisce di questi organoidi per cercare di riprodurre l’ippocampo, la parte del cervello più danneggiata dagli effetti dell’alzheimer, nella speranza, attraverso il confronto con un cervello sano, di scoprire di più in merito a questa patologia. 

Alla fine della conferenza, nei presenti è maturata una maggiore consapevolezza sul processo evolutivo a cui l’uomo è stato soggetto, attraverso il ragionamento critico su questi temi.  Impossibile dunque non interrogarsi riguardo a tutti i problemi che l’uomo contemporaneo sta vivendo, dalle guerre al cambiamento climatico. Torna a questo proposito alla mente la domanda che Domenico Saguato ha posto ai presenti a fine discorso, ossia: perché, nonostante il processo evolutivo abbia portato l’uomo a vivere pacificamente in comunità, oggi si consumano tragedie quali le guerre? Dove è finita la capacità di cooperare che ci ha portati a sviluppare la nostra intelligenza?” Come Saguato ha invitato il pubblico a riflettere sulla questione, noi invitiamo voi lettori a fare lo stesso.

Ed è così che al Liceo D’Oria è stata celebrata la nascita del grande biologo e naturalista Charles Darwin (qui l’intervista a Bruno Sterlini del TG dei Ragazzi di TGCOM24).

Lezioni di Memoria: contro l’indifferenza di ieri e di oggi

di Filippo Lussana, Gabriele Coli, Riccardo Olivieri, Elena Lanza 5B

«Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza.» Così Liliana Segre ricorda la tragica condizione di chi, come lei, negli anni successivi alla guerra, non trovò orecchie disposte ad ascoltarla.

La famiglia De Benedetti

Le dolorose storie di migliaia di famiglie ebree italiane rimasero confinate tra le mura domestiche, per il fatto che i protagonisti di queste erano stati segnati tremendamente dal dolore e da un paradossale senso di vergogna e inadeguatezza. Anche la storia di Franca De Benedetti e della sua famiglia non si conobbe fino al 2005, anno in cui decise di aprire il suo cuore al nipote, Filippo Biolè, raccontandogli per la prima volta dettagliatamente i travagliati anni vissuti tra il 1938 e il 1945.   Da questo racconto è iniziata la difficile ricostruzione della vicenda da parte dell’avvocato Filippo Biolè, presidente dell’ANED Genova (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti), che il 10 febbraio 2025 ha raccontato agli studenti del Liceo Andrea D’Oria la tragica storia della sua famiglia colpita dalla persecuzione nazifascista.

L’avvocato Biolè al Liceo D’Oria

Durante il racconto della fuga dall’Italia della famiglia De Benedetti verso una disperata salvezza in Svizzera, Biolè ha voluto mettere l’accento sui tanti piccoli gesti di aiuto compiuti da persone che, opponendosi alla diffusa indifferenza, rischiarono la loro vita per salvare quella di altri. E’ il caso del podestà di Levanto che nel settembre del 1943 sapendo che in pochi giorni sarebbero arrivati i nazisti a prenderli, invitò i De Benedetti a scappare. O dell’oste di Como che, di fronte a una famiglia segnata in volto dalla fame, consapevole si trattasse di ebrei, non ha esitato a mettere a disposizione uno spazio sicuro in cui avessero potuto sistemare le valigie con gli ultimi loro vestiti. Infine i guardiani sul confine svizzero che, pur avendo a poche centinaia di metri un presidio di nazisti, li fecero passare attraverso un buco nel filo spinato.

Bruno De Benedetti

A non riuscire a trovare la salvezza fu Bruno De Benedetti che venne deportato prima nel campo di Fossoli, dal quale tenne una commovente corrispondenza con la moglie, successivamente ad Auschwitz e Dachau. Con il suo commovente racconto, l’avvocato non ha solo rapito l’attenzione di tutti i presenti, ma ne ha anche condotto il cuore nella quotidianità di una delle troppe famiglie tuttora dilaniate da abominevoli eventi che noi definiamo “storici”, ma che sono più che mai attuali. La necessità e l’importanza di testimoni determinati e documentati come Filippo Biolè non è infatti da considerarsi esclusivamente finalizzata alla “memoria”, nel senso latino di “ricordo”; certo, esso è e deve rimanere un “peso gravoso sulla schiena” di tutta l’umanità in quanto ferita inguaribile ancora in cerca di una cicatrice, ma tali discorsi rivestono soprattutto un ruolo moderno di prevenzione ed accortezza verso indifferenza e discriminazioni, piaghe tutt’altro che superate. Non a caso Biolè sceglie, con grande efficacia e partecipazione, di concludere l’incontro citando ancora una volta Liliana Segre, rinnovando l’importante invito a scegliere con responsabilità e in nome della propria coscienza, affinché tutti “Siate la farfalla gialla che vola sopra il filo spinato.” che, nel caso dell’oste di Como o del podestà di Levanto, ha salvato la vita e il racconto della famiglia De Benedetti, e indirettamente anche noi.

Monumento Fieschi: un’icona di storia e bellezza nel cuore di Genova

Di Carlotta Berni, Alice Moretti, Giovanni Porceddu, Francesco Repetto, Linda Simonotto, classe 3B

Il 29 novembre 2024 la classe 3B è stata accompagnata nel centro storico della città di Genova in visita al Museo Diocesano, uno spazio che un tempo fu la residenza dei canonici e dove ora vengono esposti gli oggetti appartenuti alla Diocesi della città. A questi si aggiunge il Monumento funebre di Luca Fieschi, storico membro della nobile famiglia genovese e cardinale di grande rilevanza per la storia e la cultura di Genova.

Uno spazio particolarmente interessante è stato quello dedicato alla Stanza dei mesi, stanza dove vivevano i canonici, ricoperta di affreschi che rappresentano il passaggio delle stagioni e le tradizioni popolari che lo accompagnano. Al suo interno è custodito un libro dei canti, un affascinante scritto religioso, decorato da un’immagine che rappresenta l’incontro tra due donne gravide, la Vergine Maria ed Elisabetta. Il contorno del capolettera è formato da un drago che dalle fauci fa uscire un elemento floreale invece del fuoco, ciò rappresenta il soffocamento del male e la nascita del bene. Successivamente abbiamo visitato la parte del museo dedicata al Monumento di Luca Fieschi.

 

Il monumento funebre è stato voluto dal cardinale stesso, che pochi giorni prima della sua morte convocò dei testamentari per esprimere le sue ultime volontà. Egli chiese che la sua salma fosse posta nella cattedrale di San Lorenzo, dietro l’altare, vicino alle ceneri di San Giovanni Battista, posizione che nessuno aveva mai ottenuto prima. Il monumento venne fatto costruire da scultori Pisani, commissionati da due dei sette eredi testamentari.

Originariamente si ergeva con un’altezza di circa 12m ed è composto alla base da quattro statue che rappresentano le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza temperanza. Sopra queste è presente un sarcofago raffigurante Gesù Cristo che mostra le sue piaghe agli apostoli, sul quale si poggia la statua della salma di Luca Fieschi, realizzata facendo il calco del viso del defunto. La salma viene sovrastata dalle statue di due angeli che sembrano aprire le tende di un sipario, in cima possiamo ancora vedere le statue della Madonna col Bambino, San Lorenzo e San Giovanni Battista, molto probabilmente erano presenti altre statue, ma purtroppo dopo la caduta della famiglia Fieschi il monumento ha subito diversi spostamenti e molti pezzi sono andati perduti.

Questa disposizione che si può ammirare all’interno del museo è frutto di un grande lavoro di restauro da parte degli studiosi, che si sono serviti delle poche fonti del Medioevo e inevitabilmente anche della loro creatività : basti pensare che per collocare il monumento nel luogo in cui si trova ora all’interno del museo Diocesano si è dovuto tagliare parte del pavimento del secondo piano, creando una balconata che permette di osservarlo da una posizione inedita.

Grazie alla rappresentazione teatrale di Pino Petruzzelli e di Valentina Messa a cui abbiamo successivamente assistito presso l’Auditorium Eugenio Montale, che alternava momenti narrativi e di ricostruzione storica a intermezzi musicali, abbiamo potuto ascoltare la storia della costruzione e del restauro del Monumento dedicato a Fieschi, rivendendone proiettate sullo sfondo le immagini anche nei suoi preziosi particolari.

Ennio Tomaselli: il magistrato scrittore

di Lisa Ferrari e Maria Roccella, 1B. 

Quest’anno l’autore dell’incipit per il progetto “Staffetta di scrittura” a cui ha partecipato la 1B del Liceo D’Oria non è solo un romanziere, ma anche un ex magistrato minorile: Ennio Tomaselli. 

Nato presso Firenze, si è trasferito con la famiglia a Torino, nel quartiere delle Vallette. Il magistrato abita tuttora nel capoluogo piemontese con la moglie Rosamaria. Si è laureato in giurisprudenza nel 1978 e ha superato il concorso d’ingresso in magistratura, per diventare giudice penale del tribunale di Torino dal 1978 al 1986. Ha partecipato anche ad alcuni processi in corte d’Assise, e nell’86 è diventato giudice del tribunale per i minorenni. Tomaselli, forse anche per aver lavorato come giudice minorile, si sente a suo agio in presenza dei ragazzi e ci tiene a valorizzare questa esperienza. Si è sempre impegnato ad incontrare i giovani e parlare con loro, anche se a distanza. Il 3 dicembre 2024 la classe 1B del liceo classico Andrea D’Oria di Genova ha avuto la possibilità di contattare lo scrittore tramite videoconferenza  meet, per porgli alcune domande.

Ha sempre voluto diventare un magistrato, oppure se n’è convinto strada facendo?

Ho deciso di diventare magistrato alle scuole superiori, in quinta liceo, perché fino ad allora ero molto indeciso su quale carriera intraprendere. Mio padre faceva parte del corpo di polizia e forse la mia scelta è stata indirizzata anche dall’ambiente in cui sono cresciuto. All’esame di maturità mi è stato chiesto da un membro esterno cosa volessi fare dopo l’università ed è stato allora che ho espresso per la prima volta questo mio desiderio.

Com’è stata per lei l’esperienza del liceo?

Ho frequentato il classico e a dire la verità, il primo anno ho avuto non pochi problemi…sono stato rimandato in latino, matematica, greco e italiano. Anche dopo aver studiato tutta l’estate mi hanno bocciato, ma grazie al sostegno dei miei genitori sono riuscito ad andare avanti e alla fine ho lasciato la scuola con il massimo dei voti. Dopotutto a volte nella vita ci sono momenti di difficoltà, ma si possono sempre superare con la fiducia in sé stessi e il supporto dei propri cari.

In quanto magistrato lei deve aver affrontato casi di ragazzi che avevano completamente perso la loro strada. Qual è stato il caso più importante e difficile che abbia mai incontrato? 

A dire la verità tutti i casi che ho affrontato sono importanti per me, anche quelli meno complessi. Ho sempre cercato di non essere superficiale mentre analizzavano i diversi problemi, perché al di là dell’apparente semplicità della situazione nulla si deve dare per scontato. Sia che stessi scrivendo la sentenza (ad esempio del caso “Erika e Omar”) sia che stessi esaminando una pronuncia sullo stato di adottabilità, non ho mai smesso di sentirmi responsabile del minore che mi stava davanti. Infatti sbagliare su una di queste pronunce avrebbe potuto portare a delle conseguenze psicologiche irreversibili per la persona in questione.

La carriera di magistrato sembrava esserle molto a cuore, quindi per quale motivo ha scelto di abbandonarla per diventare scrittore? 

La legalità è stata senza dubbio una parte importantissima della mia vita, ma ad un certo punto ho sentito il bisogno di abbandonarla. Ho optato per il pensionamento anticipato perché mi era parso di aver completato un certo percorso di lavoro e di vita e quindi di potermi permettere, essendo già nelle condizioni per accedere alla pensione, di sperimentare qualcosa di diverso e, magari, “diversamente utile”. Ormai passavo perfino le vacanze a scrivere sentenze! Non avevo più tempo da dedicare a me stesso e alle mie passioni: così ho deciso di lasciare la magistratura per esplorare nuove forme di linguaggio con cui esprimermi.

Facendo sedimentare i ricordi della mia carriera, ho scritto quattro romanzi e un saggio intitolato “Giustizia e ingiustizia minorile”. In pratica ho continuato a partecipare alla questione minorile, solo in un modo diverso e con maggiore tranquillità.

Anche la scrittura quindi è molto importante per lei: ma cosa significa per lei scrivere? 

Secondo me la scrittura nasce dall’emozione, da quello che si vuole comunicare. Per me è molto importante esprimere la mia opinione per quanto riguarda la legalità ed è proprio per questo che sono diventato autore. I miei libri rispecchiano la realtà della vita, sono inventati ma realistici: penso che non riuscirei mai a scrivere un romanzo fantasy o di fantascienza. In essi ho narrato la storia di qualcun altro ma parlando di me: ogni scrittore alla fine racconta di sé nelle sue opere.

I libri in cui forse mi sono immedesimato di più sono stati quelli che fanno parte di una piccola trilogia, formata da Messa alla prova, Un anno strano e Fronte Sud. Il protagonista di questi romanzi è il magistrato Malavoglia, che rispecchia molto la mia esperienza personale. Alla fine dell’ultimo libro Malavoglia esce di scena, lasciando alle persone più giovani il suo posto, proprio come ho fatto io.

                  FronteSud

Avrebbe un messaggio da lasciare a queste nuove generazioni, signor Tomaselli?

Certamente…per voi andare avanti forse sarà difficile, ma il futuro è nelle vostre mani.  Volevamo lasciarvi un mondo migliore ma non tutto è possibile. Però come dice un antico proverbio africano: “ognuno è responsabile degli occhi che guarda”. Per questo vi posso lasciare il mio più grande augurio di un domani luminoso.

Grazie mille per il pensiero. Comunque secondo noi lei e i suoi colleghi magistrati siete davvero riusciti a migliorare il nostro presente! Avete riscattato tante giovani vite, che altrimenti si sarebbero perse. Ci potrebbe raccontare come riusciva a gestire i colloqui con gli imputati? 

In un processo minorile è necessario usare un linguaggio informale per favorire la comunicazione. Di solito preferisco l’uso del “tu” e cerco di non mettere soggezione al ragazzo che ho davanti. Trovo che sia molto utile chiedere l’opinione del minore sulla situazione, per sapere cosa ne pensa. In un processo dove l’imputato è adulto il tono usato è naturalmente più formale.

Secondo lei quanto è cambiata la giustizia minorile negli ultimi anni?

È cambiata molto. Nel settore civile, ad esempio, con maggiori garanzie complessive e in particolare, per i ragazzi, grazie a norme che ne prevedono o esigono l’ascolto, da una certa età in poi, nelle procedure i cui effetti sono destinati a ricadere su di loro. Parlo anche di procedure di particolare rilievo, come quelle di adottabilità e di decadenza di uno o entrambi i genitori dalla responsabilità (un tempo potestà) genitoriale.

E invece cosa accade nei casi in cui è il minore a compiere il reato? 

Il minore ovviamente viene sottoposto ad un tribunale, viene stabilita una sentenza e se il ragazzo è colpevole di grave reato viene mandato in prigione. Tuttavia si tratta sempre di una condizione temporanea, anche se può durare per diversi anni non si tratta mai di una condanna a vita. In alcuni Stati si favorisce l’ergastolo anche per i minori ma la Corte Costituzionale ha stabilito che esso è incompatibile con la giustizia minorile. Questi ragazzi sono ancora giovani e nella maggior parte dei casi è possibile anche un buon reinserimento nella società.

Ma come si può prevenire il reato minorile secondo lei? 

Per prevenire reati gravi come omicidi serve fin da subito un’azione all’interno della famiglia, il primo nucleo sociale, poi della scuola e delle associazioni educative. Ad esempio il volontariato è un buon modo di imparare ad agire per il bene degli altri.

E per quanto riguarda la sua esperienza con i migranti? Come mai ha basato l’incipit proprio su questo tema? 

La migrazione è una realtà molto attuale e molto spesso sottovalutata. Le immigrazioni dagli altri Paesi sono ben più pericolose e segnano nell’anima le persone che le intraprendono. Ho preso ispirazione per il mio incipit, da un gruppo di volontari triestini che accolgono tutti i giorni i viaggiatori della rotta balcanica. Così, ecco, ho pensato di portare questo tema anche fra due ragazzi come potreste essere voi…che discutono in riva al mare.

Giusto, Gabriel e Alessandra, i due protagonisti dell’incipit, l’uno più indeciso e l’altra più determinata. Si aspettava che fosse Alessandra a diventare la protagonista dei capitoli successivi? 

Certamente, Alessandra fin dal principio sembra la più coraggiosa e decisa a cambiare le cose. Secondo lei la migrazione non è una questione per politici o adulti ma per tutti, anche loro che sono ragazzi secondo lei possono fare la differenza!

Grazie mille  per la sua disponibilità e la sua gentilezza nel rispondere alle nostre domande. Siamo sicuri che ricorderemo questo incontro con lei per molto tempo. 

Perché gentilezza e spiritualità fanno bene alla salute

di Irene Collufio, Margherita Fazioli e Vittoria Gandolfo, 4B

Il cervello produce pensieri come il fegato secerne bile.

Patrizia Balbinot e Gianni Testino del Dipartimento “Educazione ai corretti stili di vita” di Asl 3, durante il convegno “Spiritualità, gentilezza, consapevolezza: in cammino verso uno stile di vita etico e libero” tenutosi a Palazzo Ducale la mattina del 19 novembre, hanno smentito quest’affermazione di Pierre Cabanis, filosofo francese vissuto nella seconda metà del Settecento, un’affermazione nettamente materialistica, che riduce l’uomo a pura chimica.

La relatrice ha spiegato che l’uomo è dotato di un meccanismo sofisticato per elaborare i pensieri, ovvero il cervello, che costituisce quindi la componente chimica, tuttavia sono necessarie anche le idee, che costituiscono invece quella spirituale.

La chimica del cervello ha bisogno di essere indirizzata da un’energia intelligente che viene dall’esterno, che prende il nome di spirito, il quale vive oltre la fisicità e ciò significa che è trascendente. Lo spirito non si identifica con la mente, con cui però deve trovare un equilibrio al fine di garantire il benessere psicofisico.

Per fare fronte al dolore inspiegabile che talvolta si fa strada dentro di noi,  molti potrebbero pensare che l’unica soluzione sia la medicina che offre trattamenti farmacologici; invece un’alternativa da non sottovalutare, sperimentata anche a livello scientifico nell’approccio ad alcune sofferenze, come quelle causate da dipendenze, è quella di aprirsi, sperimentando e compiendo un percorso spirituale sull’interiorità, senza il quale la medicina si rivelerebbe utile solo in maniera limitata.

Il corpo umano è un tempio e come tale va curato e rispettato sempre.

Ippocrate, medico vissuto nell’Antica Grecia e considerato il padre della medicina scientifica, con questa affermazione attribuisce assoluta importanza al corpo, tuttavia insieme alla carne deve essere curato anche lo spirito, poiché senza equilibrio risulta impossibile raggiungere il benessere di entrambe le dimensioni.

Il dottor Testino ha poi esposto le conseguenze sul piano neurologico di alcuni comportamenti sociali, quali ad esempio gli atti di gentilezza che possono causare una riduzione dei telomeri, responsabili della formazione delle rughe. Gentilezza, empatia e altruismo hanno vari effetti positivi sull’organismo, come l’aumento della vita media, la riduzione di infiammazioni e di patologie cardiovascolari, il contenimento dell’aggressività e infine sono un argine contro le dipendenze.

La gentilezza e l’intelligenza spirituale sono caratteristiche innate, però le possiamo coltivare ed allenare, invece che abbatterle e reprimerle, attraverso l’educazione, che attiva i percorsi neurologici della gentilezza.

Sappiamo quindi che la gentilezza fa bene alla salute, ma soprattutto che ci rende persone eticamente libere.